L’estetista sentinella: quando la cura della pelle diventa cura della persona

Storie di fragilità, ascolto e coraggio professionale dal cuore della cabina estetica

SPECIALE

Daniela Bergamino

11/25/20256 min read

C’è un momento, nella vita di ogni estetista, in cui capisci che il tuo lavoro non riguarda solo la pelle.
Succede quando una cliente si siede sul lettino e, mentre le massaggi le mani, inizia a piangere. Quando noti un livido che non quadra con la spiegazione che ti ha dato.
Quando vedi lo sguardo abbassarsi, la voce farsi più piccola, il corpo ritirarsi su se stesso.

In più di vent’anni di professione, ho incontrato moltissime donne. Clienti, colleghe, stagiste. Donne in cerca di leggerezza, di un momento per sé, ma spesso anche di ascolto. E dietro un trattamento viso, un massaggio rilassante, una manicure curata, si nascondono storie che non sempre hanno a che fare con la bellezza. Anoressia. Autolesionismo. Tradimenti. Abusi. Violenza di genere.

Tutto questo è passato, silenzioso, nella mia cabina. E ogni volta ho cercato di essere all’altezza. Non sempre ci sono riuscita. Non sempre avevo gli strumenti giusti. Ma avevo una cosa: la sensibilità di non interferire brutalmente, e il coraggio di non voltarmi dall’altra parte. Perché l’estetista non è solo una professionista della bellezza.

È una sentinella. Un punto di ascolto. Un ponte verso la salvezza.

L’estetica è una professione di intimità. Non solo fisica, ma emotiva. Trascorriamo ore con le nostre clienti. Le tocchiamo, le ascoltiamo, le vediamo senza trucco, senza filtri, senza armature.
E loro, in quel tempo sospeso, spesso si aprono.
Non sempre con le parole, a volte con il corpo, con un tremore, con una lacrima che scivola mentre chiudono gli occhi.
Entriamo indirettamente in contatto con la loro rete affettiva: il partner che chiama troppo spesso, i figli di cui parlano con preoccupazione, le amiche che non vedono più.

Vediamo segni che altri non vedono. Percepiamo fratture che restano nascoste. E questo ci pone in una posizione complessa. Ma anche potenzialmente preziosa.
Perché è proprio lì, in quella vicinanza fatta di fiducia e cura, che possiamo fare la differenza.

In fasi diverse, con strumenti diversi negli anni ho affrontato situazioni difficili in contesti culturali differenti, in momenti diversi della mia vita professionale. Non sempre avevo la maturità che ho oggi. Non sempre sapevo cosa dire, o come dirlo. Ma ho imparato ad ascoltare senza giudicare. A suggerire aiuto senza imporlo. A proporre vie di sostegno “trasversali”, delicate.

Ricordo una cliente che si definiva “brutta e grassa”. Anziché contraddirla con frasi vuote (“ma no, sei bellissima!”), la invitai a intraprendere un percorso più profondo, con una psicologa che conoscevo. Non come imposizione. Ma come possibilità. Lei accettò. E mi ringraziò, anni dopo, dicendomi che quella conversazione le aveva salvato la vita.

Penso che molte colleghe si ritroveranno in queste parole. Perché tutte, prima o poi, ci siamo trovate a essere molto più di estetiste.

Qualche anno fa, prima ancora che si parlasse ufficialmente di “estetiste sentinella”, ho vissuto un’esperienza che mi ha cambiata per sempre. Una mia ex cliente, con cui avevo mantenuto un rapporto amichevole, mi raccontò di avere un nuovo compagno. Mi invitò a casa loro per un caffè.
Lui non mi piacque. Non dissi nulla, ma dentro di me sentii che qualcosa non andava.

Col tempo, lei cominciò a scrivermi più spesso. Sempre nel registro professionale: consigli sulla pelle, opinioni sui centri estetici, domande su trattamenti. Poi un giorno, guardandomi negli occhi, mi disse: “Voglio parlarti perché ti vedo salda.” E scoppiò a piangere. Mi raccontò che quell’uomo era violento. Che aveva paura di lui. Che le controllava il telefono, i movimenti, le amicizie. Che non sapeva come uscirne. Decidemmo insieme un sistema per comunicare senza destare sospetti. Un codice. “Ho provato la crema che mi hai indicato” significava che lui l’aveva picchiata. “La crema l’ho messa stamani” o “ieri sera” indicava quando era accaduto. Ogni messaggio era una richiesta di aiuto silenziosa. E io rispondevo sempre. Con poche parole. Con presenza.

Ma sapevo di non poter affrontare da sola una situazione così grave.

Mi misi subito in contatto con un centro antiviolenza della zona. Prenotai per lei un primo appuntamento. Le proposi di accompagnarla, se voleva. Accettò. Ricordo ancora quella mattina. L’indirizzo non era pubblico. Dovevi chiamare per sapere dove andare. L’ingresso era riservato, protetto. Dentro c’erano donne esperte, preparate, dolci ma ferme. Fu un percorso che affrontammo insieme all’inizio, poi proseguì da sola. Con coraggio. Con fatica. Ma con una rete di protezione finalmente solida. Solo allora compresi davvero quanto fosse strutturato, e invisibile, quel sistema di aiuto: indirizzi non segnalati, accessi riservati, protocolli di sicurezza, accompagnamento legale e psicologico.

Alla fine, lei riuscì a mettersi in salvo. Lui fu denunciato. E condannato. Oggi lei vive una vita nuova. Libera. E ogni tanto mi scrive, per dirmi grazie. Non per la crema. Per esserci stata.

Molte di noi si trovano, o si troveranno, davanti a situazioni simili.
Una cliente che arriva con lividi. Che cambia atteggiamento. Che abbassa lo sguardo. Che smette di parlare di sé.

Cosa possiamo fare, concretamente?

- Ascoltare (davvero)
L’ascolto attivo è la prima forma di aiuto. Non serve dare consigli. Non serve riempire i silenzi. Serve accogliere il dolore senza aggiungere giudizi, senza farsi travolgere. Ascoltare significa: non minimizzare (“Dai, vedrai che passa”) Non colpevolizzare (“Ma perché non lo lasci?”) Non sostituirsi a chi può aiutare davvero Ascoltare significa esserci. E far sentire che non è sola.
- Riconoscere i segnali (senza invadere)
Ci sono segni che parlano. Lividi inspiegabili. Cambiamenti d’umore improvvisi. Isolamento sociale. Controllo ossessivo da parte del partner. Paura negli occhi. Non possiamo diagnosticare. Ma possiamo notare. E, con delicatezza, aprire uno spazio di parola. “Se hai bisogno di parlare, io ci sono.” A volte basta questo.
- Indirizzare verso chi può davvero intervenire
Noi non siamo psicologhe. Non siamo assistenti sociali. Non siamo avvocate. Ma possiamo fare da ponte. Centri antiviolenza, sportelli di ascolto, numeri verdi (come il 1522, attivo H24), associazioni territoriali: sono realtà preparate, sicure, che sanno come intervenire. Possiamo avere a portata di mano: Una lista di contatti utili
- Materiale informativo discreto (lasciato in bagno, ad esempio)
Un numero da chiamare, se necessario.

- Formarsi (perché non si improvvisa) Bisogna sapere come comportarsi in cabina con chi ha subito violenza. Mai creare situazioni di soggezione o paura.

Questo significa: parlare all’altezza del suo sguardo, non dall’alto; spiegare ogni gesto prima di compierlo; chiedere sempre il consenso (“Posso toccarti la spalla?”); evitare movimenti bruschi o inaspettati; non fare domande invasive.

E poi, piccoli gesti che fanno la differenza: come il lettino scaldato, una coperta morbida che avvolge, massaggio delicato alle mani, una tisana tiepida mentre la maschera agisce, una musica dolce e le luci soffuse. Tutto serve a restituire sicurezza e presenza. Creare spazi di sensibilizzazione Possiamo anche proporre, all’interno dei nostri istituti, momenti informativi: giornate dedicate, collaborazioni con centri antiviolenza, incontri con esperte. Non per fare le eroine. Ma per costruire una cultura della cura che va oltre la pelle.

Oggi esistono programmi di formazione specifici, come quelli promossi da Soroptimist International, che aiutano le estetiste a riconoscere i segni della violenza di genere e a intervenire in modo corretto, rispettoso, efficace.
Questi percorsi insegnano: a riconoscere i segnali di disagio, come comunicare in modo accorto, orientare verso i servizi giusti, come proteggersi emotivamente (perché anche noi abbiamo bisogno di sostegno).

Credo che questo sia il futuro della nostra professione. Non solo tecnica. Non solo estetica. Ma presenza umana, competenza relazionale, responsabilità sociale.
L’estetista come figura che sa prendersi cura della persona non solo nella superficie della pelle, ma nella profondità della sua dignità.

Perché tutto questo ci riguarda, anche se qualcuno potrebbe pensare: “Ma io faccio l’estetista, non l’assistente sociale.” Ed è vero. Non siamo chiamate a risolvere tutto. Non siamo obbligate a farci carico di drammi che non ci competono. Ma la cura non si può spezzare a metà. Se una donna entra nella tua cabina e ti porta la sua fragilità, tu non puoi fingere di vedere solo la sua pelle. Perché quella donna si è fidata di te. Ti ha scelto. Ti ha dato accesso a una parte di sé che forse non mostra a nessuno. E questo è un privilegio. Ma anche una responsabilità.

Non ti chiedo di salvare il mondo. Ti chiedo di non voltarti dall’altra parte. Di avere, nel cassetto della tua postazione, il numero del centro antiviolenza della tua città. Di dire, quando serve: “Non so come aiutarti, ma conosco chi può farlo.” Di essere, anche solo per un’ora, un luogo sicuro.

Ho imparato, in questi anni, che la bellezza vera non si costruisce solo con creme e trattamenti. Si costruisce con la presenza. Con l’ascolto. Con il coraggio di restare, anche quando è difficile.
La cabina estetica può essere molto più di un luogo dove ci si prende cura dell’aspetto. Può diventare un rifugio. Un punto di ascolto. Una soglia verso la libertà. E noi estetiste possiamo essere molto più di professioniste della pelle. Possiamo essere sentinelle. Alleate. Ponti.
Non sempre avremo le risposte giuste. Non sempre sapremo cosa fare. Ma possiamo decidere di esserci. Di formarci. Di non restare indifferenti.

Perché alla fine, prendersi cura di una donna significa prendersi cura della sua vita intera. E questo, nessun trattamento estetico potrà mai farlo da solo. Ma tu sì.